Bene e Male Nel Cristianesimo Cattolico
- Roberto Rossi
- 17 mag 2023
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 22 mag 2023
ROBERTO ROSSI
BENE E MALE NEL CRISTIANESIMO CATTOLICO
Relazione tenuta al Convegno Nazionale ASUS, Università Roma Tre, 25-26 ottobre 2013
“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti»” (Gn 2, 16-17). Tutto ha avuto inizio da qui, da questo ammonimento divino: comunque lo si interpreti, indica chiaramente che bene e male non possono avere una fondazione umana, terrena, storica. Il bene ci precede, ci fonda, ci orienta. Già il creato, nella sua armonia e bellezza, è bene: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1, 31). E infatti, il bene è armonia, verità, bellezza, perché Dio è Amore, Bontà e Bellezza. Non è l’uomo a stabilire cosa sia buono e cosa non lo sia. Bene e male sono prima di noi e a noi si rivelano. Il Bene è Dio che lascia in noi il Suo segno con la creazione; il male è la creatura del tentatore che, pur essendo limite, si fa come Dio per superbia, rompendo ogni armonia e consonanza con Dio. Per questo motivo, l’insegnamento cattolico sul bene e sul male prevede, precisamente in quanto cattolico, che il fondamento morale sia universale, rivelato in ciascuno, indipendentemente dal proprio contesto storico-geografico di appartenenza, presente in quanto inscritto ontologicamente in ogni uomo sin dalla Creazione e poi storicamente rivelato ad ogni uomo attraverso Gesù Cristo, come si legge, del resto, nella costituzione sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, la Gaudium etSpes, che ricorda e conferma che “nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi.
Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: …
L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa, egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità ”.
La coscienza è il soggetto, ma la presenza della legge morale trascende l’uomo, lo oltre-passa e non coincide con la sua soggettività. È una concezione che supera il soggettivismo, senza eliminare il soggetto: la coscienza è l’oggettivo (che spesso viene definita la voce di Dio) dentro il soggetto. È presente in ogni uomo, ma trascende ogni uomo. La coscienza non è dunque un infallibile giudice di ciò che è giusto e di ciò che non lo sia, ma piuttosto un testimone interiore della verità morale da applicare alle singole azioni.
Essa, dunque, non crea e non stabilisce autonomamente le norme morali, ma è chiamata ad ascoltare la verità che è bene e a rifiutare ogni tentazione verso il male. La coscienza è fondata sulla verità del bene e del male che ci proviene da Dio. Essa è il luogo intimo dove Dio parla alla nostra interiorità e la Sua voce deve orientare il nostro agire per seguirne la strada.
Questa coscienza non deve confondersi con il proprio interesse egoistico o quello gregario della mentalità corrente. La dignità della coscienza dipende dalla sua apertura alla verità, che è sempre sovra-soggettiva, essendo l’alterità eletta come fondamento.
La fondazione della persona è soltanto in Dio e dunque segnata da Dio, dal soffio di YHWH, dall’esser stati creati a Sua immagine e somiglianza. Anche la persona che giudichiamo moralmente peggiore ha in sé questo segno di Dio che lo sacralizza e, rendendolo libero, lascia aperta la speranza al suo pentimento.
Ciò che fa essere uomo, l’uomo, è questa presenza che, trascendendolo, lo inquieta e lo spinge ad un’azione libera nella storia che gli possa donare la risposta appagante. La risposta storica alla infinita qualità della interiore domanda umana, a quella che letteratura ed arte hanno indicato come inquietudine o malessere o disagio o tensione o anelito, è Gesù di Nazareth, Rivelazione-risposta, risposta rivelata: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8, 12). Il fatto che Gesù abbia eletto un tempo preciso ed un luogo geografico preciso è il segno storico necessario per poter parlare ad ogni uomo, in ogni tempo e ovunque sia l’uomo, perché la storia è condizione essenzialmente umana, solo umana e ne è completo sinonimo: dire storia significa dire umanità. Non si tratta più di un Dio privato, etnico, locale, ma universale, ‘cattolico’ appunto: ogni settorialità è superata.
Una verità che appaghi questo o quell’aspetto dell’uomo è unilaterale, particolare: non è verità. Per questo motivo Dio non va considerato semplicemente come un’esigenza, o come oggetto del sentimento o dell’immaginazione, magari come una necessità sociale o culturale; Dio è, invece, visibilità storica, nella persona di Gesù, evidenza storica, concreta e tangibile. La verità non appartiene, dunque, al solo logos, come nella tradizione classica greca, ma coinvolge l’intera persona: chi fa il bene agisce, opera, ama, perché l’amore è verità ed è anche la bellezza della vita: è quanto esplicitato dal manifesto morale del Cristianesimo, il Discorso della montagna. E così bene e male, inseriti nella prospettiva della Verità rivelata, la persona di Cristo, tali sono in quanto coinvolgono l’intera persona: si allude al concetto di piena consapevolezza e deliberato consenso, cioè alla volontà libera che sa aderire consapevolmente all’azione e alle sue conseguenze. Se la fondazione di ciascuno di noi in quanto persone è nell’Alterità, è l’alterità che orienta ogni persona e l’agire buono; ed è l’oblio o la strumentalizzazione dell’alterità che ne orienta l’azione maligna, perché questo indica che si è divinizzato l’ego, assolutizzato il particolare. È l’antica tentazione serpentina nell’Eden: “eritis sicut Dei”, pretesa ed atto di superbia, contrapposizione e volontà di assolutizzarsi, secondo le parole del tentatore: “quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3, 5).
La centralità della persona, qualunque persona, incondizionatamente, è l’orientamento del bene: scoprire ed amare quella differenza che, per questo motivo, definisce l’essenza del sacro. E, sempre per lo stesso motivo, il male è nel nostro atteggiamento di in-differenza di fronte all’alterità, dunque d’indifferenza nei confronti della persona, il non riconoscerne la sacralità, cioè la differenza, dunque il non riconoscerne la fondazione in Dio, il suo essere immagine dell’alterità di Dio. Amare non è un concetto edulcorato per nascondere la sublimazione della difesa della propria specie. L’amore è certamente una capacità che ogni uomo possiede, ma si è dovuto ‘scomodare’ Dio per rivelarci che la chiave di volta che regge (che dovrebbe reggere) la vita è proprio l’amore. Perché?
Perché l’amore non è ‘naturale’ e ovvio: vanificheremmo il senso della Rivelazione se così considerassimo le cose, ridurremmo la Rivelazione a qualcosa di superfluo o a semplice conferma di ciò che l’uomo sapeva.
L’amore, quello autentico, non è nell’ordine della natura. Naturale è la difesa del proprio, è l’egoismo, la difesa del particolare che mi appartiene o dei propri interessi o, tutt’al più può essere, sì, un dare, ma per ricevere altrettanto. Nell’annuncio della Buona Novella di Gesù l’amore è, invece, la modalità per la quale e dalla quale saremo riconosciuti come Suoi discepoli, Suoi discepoli in quanto hanno compreso e testimoniano il Dio d’amore, Dio come amore.
E quale specificità ci viene indicata nel saper amare come Cristo ci ha amati?
Quale elemento, nell’amore, segna l’identità cristiana?
La specificità è data dalla gratuità e dal servizio: “se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9, 35); “…chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 9, 43-44). Per questo motivo, emblematicamente, ammonisce Gesù, “quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, …Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14, 12-14).
L’amore è una potenzialità umana, ma è anche facilmente deteriorabile per mano dell’uomo, orientato egoisticamente, animalmente dal proprio io, dai propri particolari interessi e dalle proiezioni di desiderio e soddisfazione del solo io: “se uno dicesse «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Gv 4, 7-8; 20-21).
Dio si è rivelato come Amore, amore sovra-nnaturale, cioè amore gratuito, incondizionato, che non aspetta contropartite e che non deve contrapporsi mai, che si educa ad amare i propri nemici in quanto espressione dell’alterità più lontana, anche ostile e dunque, misura autentica della propria capacità di amare.
Non amore per i tuoi amici, per chi la pensa come te, per chi ti è affine o vicino: il prossimo è ogni uomo, cattolicamente indipendente dal proprio contesto storico-geografico di appartenenza: “se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto” (Lc 6, 32-34). Il bene è qui, in questa elezione di ogni persona come sacra, come orientamento del nostro agire: qui si esprime il bene, qui si realizza seppur mai compiutamente, visti i nostri limiti e le nostre possibili cadute nel particolare. Queste cadute nel particolare, nel proprio, evidenziano il limite che, se scelto, se eletto quale criterio del proprio agire morale, orienta l’azione al male. Il male sta nell’aver assolutizzato il relativo, il particolare: e così, in maniera crescente, l’io si sostituisce al tu e ad ogni altro, il proprio interesse a quello comunitario, l’uomo a Dio.
Per questo motivo Agostino, nella sua settima omelia, commentando la prima Epistola di Giovanni, riassume la cattolicità dell’insegnamento di Gesù nel modo più semplice: “ama è fa’ quello che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”. Se all’amore incondizionato si sostituisce qualsiasi altra motivazione nel nostro agire morale, si ideologizza l’amore, lo si indirizza a qualcosa o a qualcuno in particolare, amo chi mi interessa amare, si limita l’amore alla propria privata prospettiva, al particolare giudizio di valore che viene dato a questo o a quell’altro mio simile. L’amore è, invece, motivazione incondizionata, cioè ‘senza condizioni’.
Ora, proprio per questo motivo, se l’Alterità fonda la persona e l’agire morale verso il bene, ogni scelta del bene o del male non può essere un fatto privato: fare del bene è amare l’altro, così come il male, il peccato, non è una colpa individuale, una responsabilità soltanto soggettiva. Agire male mi chiama ad una responsabilità certamente personale che è, tuttavia, anche comunitaria, anzi personale in quanto comunitaria, se è vero che la Rivelazione, l’Alterità rivelata, fonda la Chiesa e il mio statuto ontologico di persona richiama all’alterità fondante: “come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra, e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, […] se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; […] ” (Cor 12, 12, 26-27). Il male che compio coinvolge l’intera comunità in quanto io, come cattolico, ho senso soltanto nell’alterità comunitaria, quella che mi identifica come credente in Cristo rivelato.
Il male che scelgo di fare, getta un’ombra, una testimonianza negativa su tutta la Chiesa: del male rispondo come persona e come credente, cioè come colui che è relazionato agli altri e fondato dall’alterità. D’altra parte se, come ho indicato, il male è il particolare che viene indebitamente assolutizzato, come criterio, come fine, come valore, agire male è per sua stessa essenza una colpa che ho commesso di fronte a Dio, ma anche di fronte agli altri, ai miei fratelli, fratelli nell’unico Padre e tali rivelati anche da Cristo. Il male è contrapporre il proprio particolare, farlo centrale ed unico, imporlo come più importante dell’altro: e l’altro è Dio ed è ogni altro, cioè il mio prossimo. Lo indica anche Paolo quando scrive “non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Non cerchi ciascuno il proprio interesse, ma … quello degli altri” (Fil 2, 3-4). Amare Dio è amare in modo assoluto l’Alterità, incondizionatamente: in Lui ogni alterità è compresa e dunque inserita nel concetto di Chiesa: “e chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, …, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10, 42), perché “ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25, 45). La Chiesa, è prima di tutto l’umanità, quale sua originaria espressione, ogni uomo perché fratello e redento in Cristo.
Ormai non c’è più “Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 27-28).
Il male di per sé non è mai ragionevole, non ha diritto all’esistenza, non risponde ad alcuna logica, non è mai giustificato, né necessario.
Basti pensare alla sua più calzante espressione: la morte.
Ebbene, “il salario del peccato” che è la morte (Rm 6, 23) è stato l’ultimo nemico maligno vinto da Gesù[1]. La morte è l’apparente trionfo del particolare che, evidenzia ciò che lo caratterizza, -il non-essere, il toglimento di ogni senso e significato-, e che tutto sembra annullare, trionfando come particolare, in quanto annullare è il potere del limite che si pretende assoluto. Solo ciò che è limitato e particolare, d’altra parte, muore. La morte è l’emblema stesso del peccato, delle tenebre, del male; essa racchiude in sé ogni dolore, l’insignificanza della sofferenza, l’assurdità del trionfo del non essere.
Ma Dio ha risuscitato Gesù di Nazareth e la sua Resurrezione ha retroattivamente illuminato quel dolore e quella morte, dando ad essi, dolore e morte, dentro di essi, la speranza fondata dalla vittoria di Gesù sull’apparente trionfo del limite nullificante: “in verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv 8, 51).
Credere in Cristo significa credere alla Sua Resurrezione, nella quale tutti coloro che credono in Lui saranno salvati. Se infatti, “non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato. Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra … fede. […] Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15, 13-14, 20). Tutti noi cristiani siamo “convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi” (2 Cor 4, 14). La salvezza è per tutti; la resurrezione è per tutti, perché Cristo, rivelandosi nella storia dell’uomo, ad ogni uomo di ogni tempo ha parlato e per lui è morto e risorto. La Sua Resurrezione ci annuncia che il morire non è l’ultimo atto e con Gesù tutti gli uomini possono avere la vittoria sulla morte, vivere nella certezza che la morte è morta: infatti “se siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 5, 8-9). La cosa straordinaria ed unica è che proprio gli emblemi del male e le conseguenze del peccato, cioè il dolore e la morte, diventino con Gesù vie alla salvezza di ogni uomo.
[1] “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte…” (1 Cor 15, 26).
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