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Discussioni generali

Pubblico·25 membri

CAPIRE PER CREDERE 7: DIO E L'INGIUSTIZIA DELLA MORTE DI UN BAMBINO

     Perché un uomo quasi centenario può morire senza scandalo, mentre un bambino solleva lo sgomento e la rabbia e gli interrogativi più impotenti? Che la natura, nel suo corso abbia una sua logica lo crede l’uomo, che osservando attorno a sé le altre creature e riflettendo sulla sua vita per analogia, ritiene che sia “giusto” percorrere la parabola della vita e concludere l’esistenza a tarda età. Eppure, biologicamente, la morte, in natura, difficilmente può percorrere la sua parabola: la sopravvivenza alla quale ogni creatura, animale e vegetale, è sottomessa e costretta quotidianamente a salvaguardarsi e ancor più in tenera età, deve fare i conti con eventi, avversità, malattie, contendenti e concorrenti che attentano al normale corso della vita e la interrompono tragicamente in ogni momento. Ma noi cogliamo quel fil rouge che ci sembra autorizzare a pensare che la vita debba percorrere tutta la sua parabola. E quella parabola è un progetto che va svolto, che tutti, pensiamo, abbiano il diritto di esplicare sino in fondo, perché la vita non è un’accozzaglia di eventi in successione, ma un progetto che da implicito dovrà, via via, lentamente e pazientemente, realizzarsi. 

     Quando piangiamo un giovane morto, piangiamo il suo possibile che non è mai diventato realtà, piangiamo quella tragica assenza imposta dalla morte, che ha tolto ogni possibilità di accedere al possibile, cioè al futuro. Il presente si è imposto come assoluto, la sua realtà particolare ha cancellato la consistenza dell’assenza possibile, ne ha interrotto la forza trainante, progettuale. Noi piangiamo un progetto mancato, strozzato, ingiustamente bloccato dalla realtà del presente che, con la morte, si è indebitamente assolutizzato. Piangiamo, con la morte, il trionfo del reale finito sul possibile.

     Cogliamo, in quel momento, la follia della natura, la sua ottusa cecità, la sua non rispondenza alla logica anche più banale che sembrava guidarla: si muore vecchi, non da giovani o da bambini.

     Ma non è così: la natura non guarda chi uccide, non fa calcoli, non è quella fantomatica “madre natura” che secondo acritiche posizioni pseudoscientifiche, avrebbe  dotato ogni sua realtà di ordine e bellezza. Tanto si vive quanto si muore e lo sforzo stesso dell’uomo di dare alla parabola naturale una fedele adesione a quello che ritiene così normale e logico e giusto, è un ulteriore tentativo di incanalare la natura secondo intenti umani, non naturali, che solo apparentemente e superficialmente sembrerebbero appartenere al quotidiano in natura: arrivare alla vecchiaia ed essere soddisfatti di aver prolungato il più possibile la vita. E così interveniamo artificialmente, con medicinali, chirurgia, prevenzione, ecc. Non importa che, in realtà, non si prolunga la vita, ma la vecchiaia e la sua decadenza, una sorta di agonia imbellettata, con quei pochi centenari, trattati come bambini e stupidotti ai quali fare domande stupide, sempre che le riescano a sentire e a capire. Una grottesca immagine di ciò che resta dell’uomo.

     Quando poi qualcuno chiama in causa Dio per morti così precoci e inspiegabili (una chiamata in causa giustificata dall’ignoranza profonda di un clero che ha confuso e continua a confondere la superiorità di Dio sulla morte con la causa di questa: se Dio non lo ha impedito, vuol dire che lo ha voluto), dimenticando non soltanto che Dio è Dio della vita e non della morte, ma che questa appartiene al piano della generazione, dell’orizzontalità storico-naturale, quella che Gesù ha redento, pagandone per primo la legge spietata: morte e dolore secondo generazione e natura che Egli stesso ha subito, e da innocente e giovane secondo l’altro aspetto orizzontale, quello della gretta prospettiva storico-ideologica.

     “Perché se Dio c’è, esiste il male?” ovvero “Come fa Dio a far morire un bambino innocente fra le sofferenze?” o ancora “perché se Dio esiste ha permesso quel genocidio?”, sono tutte richieste di senso, di significato, di motivazione.    

     La morte è il trionfo del particolare, della precarietà: è l’assolutizzazione del particolare e, ovviamente, non può che essere NULLA. Si deve riflettere sulla morte: essa, per essenza, non può che appartenere alla precarietà. Non è da Dio, ma dall’uomo e dalla sua libertà che ha scelto, illudendosi, di poter fare da sé. Dio è padrone anche della morte, perché nulla Lo limita, ma questo NON significa che ne sia la causa. Come posso pensare, se perdo un figlio giovane che “Dio lo ha voluto chiamare a sé”?! Se Dio avesse creato la morte, la creazione avrebbe una insensatezza e avremmo una contradizione insanabile: Dio, lo stesso che avrebbe creato la morte, manda poi Suo figlio a vincere la morte!

     La morte è conseguenza intima, in quanto essenza, della precarietà che presume l’assolutezza, cioè di quello che nella dottrina del Cristianesimo è comunemente definito (senza molte spiegazioni, per la verità) peccato originale. Ed è infatti la massima espressione della precarietà.

     Un bambino che muore dopo poche ore non ha meno significato di un vecchio centenario. E il fatto che io possa aver avuto dolori, prove e sofferenze, mentre un altro ha vissuto una esistenza lineare e senza grossi traumi è casistica della generazione, l’evidente non-senso della terreneità. Così, il fatto che una parete di chiesa, sotto scosse di terremoto crolli uccidendo i fedeli in preghiera, laddove in un postribolo vicino sono restati tutti illesi è accidentalità insensata della realtà, banalità ottusa e senza un significato inerente esattamente a quella esistenza che reclama, anche per questo, un suo fondamento salvifico, una sua giustizia autentica, una redenzione dalle sue sciocche imprevedibili tragedie. Un benefattore muore precocemente, mentre un aguzzino arriva al secolo di vita? La nostra ragione e il nostro umano (troppo umano) senso di “giustizia” non comprendono e, per giustificare ecco comparire i consueti luoghi comuni:

1)                 è un misterioso disegno di Dio che va accettato. Noi non siamo nulla e dobbiamo fare la volontà del Signore;

2)                 Dio è quello che fa morire e che permette tragedie e assassinii? E che Dio è?

3)                 Dio non esiste, perché se esistesse, non avrebbe fatto morire chi non meritava, lasciando vivere chi avrebbe invece meritato di morire!

     Tre modi diversi per evidenziare che non si è capito nulla dell’annuncio cristiano. Al centro di queste e analoghe confuse esclamazioni di rabbia e impotenza, c’è sempre l’importanza centrale che viene data all’esistenza, all’orizzontalità del vivere, ancora una volta assolutizzando il temporaneo e precario. La vita non è un valore in quanto vita: non è la natura, né la sopravvivenza animale e vegetale a rappresentare anche per l’uomo uno scopo plausibile. La vita umana deve avere un senso che vada oltre il mero vivere. Se il fine della mia vita è conservarla e difenderla e basta, allora tra me uomo e un lombrico non c’è alcuna differenza. Se la vita dell’uomo ha una differenza, e ce l’ha, la sua radice non è nella terreneità, dove andrebbe a confondersi con la vita di qualunque altro organismo. Soltanto una scaturigine trascendente dà alla vita valore sacro.

     Si continua a indicare Dio come la causa della morte, quando per un credente è evidente che la morte è conseguenza del limite, cioè di quello che è stato indicato come “peccato originale”, vale a dire, il limite che pretende superbamente di essere un assoluto (l’edenica tentazione dell’”eritis sicut Dei”). E la morte è entrata come parte integrante della generazione: infatti quale evento, più di ogni altro, è la manifestazione del limite che pretende di essere un assoluto? Precisamente la morte, il trionfo del limite che tutto annulla e nientifica.

     Alla morte ha già risposto, definitivamente Gesù con la Sua Resurrezione. La morte non è voluta da Dio. Dio è pienezza di vita, è Essere. Non può confondersi con la morte che è finitudine e limitazione. Nell’annuncio cristiano Dio si fa uomo per salvarci. Ma da che cosa? Più ancora del peccato, concetto nebuloso e non sempre chiaro, è la morte l’emblema delle tenebre, del male, dello stesso peccato, che è morte spirituale. La Resurrezione di Gesù è la vittoria sulla morte, senza la quale tutto il Suo annuncio, a qualunque livello sia considerato, non avrebbe avuto alcun valore. Sarebbe stato vano, come ammonisce Paolo.

     Se Dio toglie la vita a Suo piacimento, che senso avrebbe che Suo Figlio, Gesù di Nazareth, abbia patito tutto quello che ha patito per vincere la morte? L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte (1 Cor 15,26): dunque Gesù avrebbe sconfitto Suo Padre? E non bastava Dio Padre a sconfiggere la morte come ci viene implicitamente ma costantemente inculcato da questo clero ripetitivo e acefalo? Se Dio è causa di morte, Gesù che funzione ha di fronte ad essa con la Sua Resurrezione, con la Sua vittoria sulla morte e sulle logiche finite della generazione in nome del progetto celeste della creazione?

E dunque? Cristo ha sofferto in modo indicibile per abbattere un nemico che è voluto e proviene da Suo Padre?

     Il fatto che Gesù abbia mediato tra Creazione e generazione, l’influenza delle filosofie pagane (lo Stoicismo in particolare), ha indotto molti, clero compreso, a identificare i due piani, per cui se nasco è volere di Dio, se muoio è volere di Dio, un Dio della morte, se ho fortuna in questo in quell’evento della mia esistenza l’ha voluto Dio, ecc. ecc. Si confonde il fatto che Dio possa tutto, che sia superiore al male, con il suo esserne causa; la Sua superiorità sulla storia dell’uomo con il suo stesso intervenire in essa (accade certamente, ma quando accade si parla di miracolo!). Il piano di salvezza di Dio sull’uomo non è direzionare la storia di qua e di là nel contingente (responsabilità soltanto nostra, ché se fosse direzionata da Dio non avrebbe avuto bisogno di un Salvatore), ma aver inviato Suo Figlio per far capire in modo unico, compiuto, perfetto, chiaro, universale quale sia la Via, la Verità, la vera Vita. Gesù ha aperto nel mondo, nella generazione, la Via della salvezza e chi crede in Lui vede tutto in Dio e verso Dio, ma questo non è automatico per tutti! è una scelta che ogni volta va fatta tra la dimensione attraente e seducente della generazione (l’orizzontalità naturale/animale vissuta nella propria storia) e dei suoi falsi idoli e quella invisibile e consistenzialmente solida dell’infinito, il progetto di salvezza nella creazione.

     Si muore perché appartenere al piano della generazione, significa essere condannati a morte: ne subì la sorte anche Gesù. Non si muore per il piano della creazione, dove non c’è caduta e peccato, non c’è particolare assolutizzato (idolatria e morte) e dove, anche se si muore, credendo in Gesù, non si morrà.


post scriptum: Di fronte anche a certe stoiche e non cristiane prediche funerarie del clero sarebbe bene ricordare anche solo il libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano: le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sap 1, 13-15; 2, 23-24).

 

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ROBERTO ROSSI
30 ago

La ringrazio per le sue ineccepibili precisazioni. Ci sono a mio avviso, tuttavia due considerazioni da fare.

1.- sul piano pastorale è stata una scelta giusta quella di predicare l'accettazione difficile se non impossibile di una morte (parlo soprattutto di bambini o minorenni) come una morte permessa da Dio, trascurando l'essenziale, e cioè che Dio è Dio della vita, della gioia, della speranza, della vittoria sulla morte!

2.- dimenticando o ripetendo solo mnemonicamente e senza spiegazione, che la morte è stata introdotta dal peccato: essa, dunque, non aveva niente a che fare con Dio. Come addossarGli qualcosa che è tenebre e negatività e conseguenza del nostro peccato?

Per quel poco che ho sperimentato, noto che parlare di Cristianesimo significa per la gran parte dei non credenti parlare di dolore, di sofferenze, di morte, di divieti, di penitenze e di tutto quanto sembra opporsi alla gioia di vivere. Che la morte sia stata vinta e che noi viviamo nella certezza della speranza dataci dalla Resurrezione di Cristo (quanto dovrebbe essere predicato!) e della morte, che è IL peccato, l'ultimo nemico che Gesù ha dovuto abbattere, che è stata vinta, ci sono poche tracce nelle prediche domenicali e durante i funerali. Permettere non è causare e chiedere ai fedeli (e agli stessi sacerdoti) di fare una distinzione tra volontà permissiva di Dio e una volontà positiva, distinzione è difficile, se non impossibile, persino sul piano teologico per gli addetti ai lavori. E invece la si è data in pasto al popolo dei fedeli: penso sia stato il più grande errore sul piano pastorale, che ha messo in secondo piano ciò che, viceversa, è l'annuncio essenziale del Cristo.

Roberto Rossi Filosofo

2023 by RobertoRossiFilosofo

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