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IL COMINCIAMENTO

Uno sguardo preliminare. L’affanno quotidiano

Dopo il silenzio della notte, a parte qualche nostro esemplare vagante per diversi e non sempre buoni motivi, come la luce comincia a illuminare i nostri spazi, inizia il frenetico correre al lavoro con le nostre protesi, non uguali, perché in esse, ciascuno ha manifestato il proprio stato sociale, il proprio budget, il proprio gusto, la funzionalità di cui necessitava. Tante automobile, diverse tra loro, opinabili e poi qualche mezzo, ben più grande, riconoscibile per tutti, non più privato, ma sovrasoggettivo. Prendere quel mezzo significa non fermarsi dove si vuole, ma a fermate fisse, precisate in anticipo, in grado, per questo, di orientare il nostro muoverci e, dunque, la nostra scelta.

L’impatto iniziale è dunque chiaro: c’è un versante soggettivo ed uno oggettivo, una dimensione privata ed una definita pubblica, sociale, cioè sovrasoggettiva, dunque oggettiva, non soggetta ad interessi particolari. Anzi, questi, in quest’ultima dimensione, sono educati a far riferimento a ciò che è comune, di tutti, condiviso (come si vedrà, una forma, seppur sbiadita e arrangiata, di universalità).

In questo generale formicolio di gente che va di qua o di là, a piedi o meccanizzata, ci sono anche i nostri bambini, creature che vanno ad apprendere, ad imparare, per approdare, piano piano, faticosamente, alla dimensione della conoscenza. E anche per loro c’è una grammatica e una sintassi oggettiva, comune, condivisa, sovrasoggettiva, non opinabile, che permetterà loro, con il tempo, di avere il proprio soggettivo stile, nello scrivere e nel parlare.

La loro individualità sarà orientata e crescerà in proporzione alla loro conoscenza e adesione ai riferimenti oggettivi della lingua che andranno ad esprimere. Più ne conosceranno intimamente gli aspetti, più saranno dentro quella sovrasoggettività della morfologia della lingua, più saranno liberi di poter manifestare se stessi.

E a scuola ognuno ha la sua personalità, i suoi gusti, il proprio carattere, i suoi tempi di apprendimento, le reazioni e le emozioni e tutto il resto ricchissimo di ogni personalità. Eppure questi studenti come i docenti e tutti gli altri, diversissimi tra loro, con il proprio specifico soggettivo, sono tutte persone. Dunque, c’è qualcosa che accomuna tutti e qualcos’altro che ci distingue l’uno dall’altro. Il primo, è il versante dell’oggettività, dell’universalità, quello che ci fa persone, tutte dello stesso valore, sacre, “diritto sussistente” come le definisce Rosmini[1]. Poi, la persona ha la sua soggettiva personalità, la propria individualità che tuttavia, come valore, non potrà mai superare l’oggettività della persona. Una personalità inutile, dannosa, laboriosa, ricca o povera, bella o brutta, maschio o femmina, bianco o nero, ecc., sarà giudicata e valutata per lo specifico che è, ma la persona, indipendentemente dalla sua individuale personalità, resta inviolabile, deve essere assolutamente, incondizionatamente rispettata[2].

Ancora una volta, un versante oggettivo, universale ed uno soggettivo, opinabile, particolare. E, ancora una volta, quest’ultimo ha le radici del suo valore non in se stesso, ma nel primo versante, quello sovrasoggettivo.

Entro in un ufficio postale. Prendo un numero di accesso prenotato. In quel momento la mia individualità, chi sono, cosa penso, e tutta la mia vita, passata e presente, è messa da parte. Io sono quel numero criptico: A012. E quel numero mi rappresenta. È un riferimento oggettivo al quale devo piegarmi se voglio avere un ordinato accesso al servizio. Il celeberrimo “lei non sa chi sono io!” cede il posto al più umile e discreto “sono io A012, tocca a me!”. Far passare il soggettivo per oggettivo, come nel primo caso, è arbitrio, dogmatismo e razzismo: “io conto molto, tu non sei niente!”. Così, quell’A012 tanto importante, anzi essenziale in quel limitato spazio dell’ufficio postale, appena esco di là, non conta più nulla.

Torno ad essere me stesso con altri riferimenti sovrasoggettivi con i quali, mediante i quali, grazie ai quali ci è permesso vivere. E così le leggi da rispettare, le regole dell’educazione, ma anche le strisce pedonali, l’appartenenza di genere, le automobili che ingolfano la strada, le categorie di età (bambini, giovani, adolescenti, vecchi, uomini o donne maturi, ecc.), il menu di un ristorante, gelati o pizza che vedo in mano ai miei concittadini, il modo di guidare, i semafori, la taglia di un abito, la misura di una scarpa, uno stop o un diritto di precedenza, una o più diottrie visive, un libro, un’insegna di negozio o della metro, persino una voce di cui non si sa la provenienza, il camminare, il corpo, il bere o il mangiare e così via. Potrei elencare tutto, perché tutto ha una base oggettiva (sovrasoggettiva) ed una individuale, privata. E tutto ciò che si esprime come soggettivo è possibile solo ed esclusivamente perché pre-esiste l’oggettivo al quale ogni soggettività, consapevolmente o meno, si riferisce.

Di chi è il corpo umano raffigurato su quell’atlante anatomico? O lo scheletro visto in uno studio medico? Di tutti e di nessuno in particolare, ma ogni particolare lì ci si ritrova, lì scorge la sua parte sovrasoggettiva, quella che lo accomuna a tutti gli altri.

Si può già comprendere da queste primissime indicazioni che il sovrasoggettivo, l’oggettivo, l’universale, non è una soggettività quantitativamente allargata, o la media delle soggettività o la generalità o maggioranza delle soggettività. È altro. Si tratta della qualità che poi può avere manifestazioni quantitative diverse.

L’oggettivo, l’universale fonda, orienta e dà significato ad ogni particolare.

L’alternativa è che ogni particolare, in modo arbitrario, presuma di essere oggettivo e universale.

Le conseguenze? Ideologia, dogmatismo, dittatorialità, idolatria, ὕβρις, arroganza e superbia, an-archè. Ma, quel che è peggio, è che si ripristina la legge del più forte di stampo animale, come una vera e propria legge della jungla sublimata, solo che qui, l’opinione di qualcuno (che non vale più o meno di altre) viene imposta con la forza dei media, degli opinion leaders, di minoranze agguerrite che fanno maggioranza per una reazione meramente gregaria e pavida dei più, di inchieste ideologicamente pilotate.

Ma essendo l’universalità ineliminabile (la si può eliminare solo con un altro universale), la sua nostalgia porta, -ora però a partire dal soggettivismo- alla sola possibile pessima copia dell’universalità, la generalità, cioè all’omologazione, riduttiva, falsificante, pericolosissima sostituta dell’universalità. Le radici della confusione tra universalità e generalità (con le sue bastarde filiazioni come il consenso, l’unanimità, la maggioranza, la condivisione, ecc.) stanno qui.

Poi, in questo panorama paludoso di opinioni, in pieno caos comunicativo, dovendo emergere dei riferimenti per fornire orientamenti elementari, ecco che ne vengono eletti alcuni, posti arbitrariamente a fungere da modello e ai quali, guai a chi se ne discosta! Ed ecco le assolutizzazioni arbitrarie (perché mero prodotto storico che viene reso sovrastorico) che di volta in volta vengono sciorinate: l’aborto è un diritto inalienabile, l’evoluzione non va mai messa in discussione, la Costituzione e i Padri Costituenti diventano il nuovo Libro Sacro, ognuno ha la sua morale, in democrazia ognuno ha la libertà di fare ciò che vuole, la scienza è l’unica vera conoscenza alla quale affidarsi, ogni cambiamento è miglioramento, il progresso è continuo, un giovane deve divertirsi perché se non lo fa adesso quando lo fa?, le bellezze della natura, ognuno ha il suo Dio, tutte le religioni sono uguali, i preti dovrebbero sposarsi così capirebbero meglio i problemi della gente, ciò che è naturale è buono e giusto, gli animali sono migliori di noi e altri luoghi comuni del genere.

Al di là del basso contenuto di queste convinzioni, diffuse spesso ad arte per creare una omologazione che non disturbi e che sia sotto controllo, ciò che emerge è che in un orizzonte piatto e davvero equivalente non si può vivere. Sarebbe il contesto di quel relativismo assoluto (vero e proprio ossimoro!) che assolutizza solo l’io: il principio dell’an-archia. La presenza di anarchici è sempre diffusa, nascosta, insidiosa, pronta a esplodere. La versione politica dell’anarchia è soltanto un utilizzo ideologico, perché oggi l’anarchico non fa che amplificare al massimo grado, coerentemente, il soggettivismo esasperato dei nostri tempi, l’individualismo radicale che segna tutti, ma che per molti, come scritto, ha qualche riferimento assoluto (accettato per convinzione, per pavidità, per superficialità, per gregarismo, per disposizione di carattere, per convenienza, per interesse). Gli anarchici sono la punta dell’iceberg di una società individualista come loro. Solo che i primi non accettano compromessi, mentre i secondi, comprendendo l’impossibilità di poter vivere socialmente, accettano certi “assoluti” arbitrari.

È evidente che tali “assoluti” sono arbitrari perché imposti. E da chi? E perché? Si tratta di un legame relazionale sensibile e vulnerabile alle critiche, facilmente attaccabile politicamente ed equivalente ad altre ideologie, anche opposte a quelle dominanti.

Ciò che normalmente appare ben distinto e chiaro (da una parte le persone “perbene” e dall’altra gli anarchici) quando le cose si fanno critiche coinvolgono anche i perbenisti, che rivendicano, a diverso titolo, la necessità di cambiare drasticamente e cambiare senza serie argomentazioni se non l’utile, il benessere immediato, l’ideologia dominante o di moda, quella surrettiziamente strisciante imposta pazientemente dagli opinion leaders, sino a quando non interviene l’Europa con i suoi “valori”, imposti come insindacabili.

Come motivare certi orientamenti educativi ai nostri bambini? Su quali fondamenti e perché? Così, a tutto quanto già indicato, si può aggiungere la più arbitraria delle conclusioni: l’assolutizzazione del presente o della sua critica. I due versanti segnano il docente tradizionalista e quello progressista, secondo una identità così superficiale che fa spavento pensare che i nostri figli e nipoti siano in queste mani!

L’assolutizzazione del presente, il pensare che il proprio tempo si erge a giudice della storia è visibile in certe riduzioni teatrali e d’opera, talora anche filmiche, dove, magari nell’Antigone compaiono militari nazisti con mitra o che l’Otello diventi un fattarello di cronaca nera dell’oggi, anche se i temi religiosi attinenti la vita di Cristo sono i più appetiti

Una presunzione di fondo guida queste velleitarie banalizzazioni del testo, la loro infedeltà filologica, contestuale, come se soltanto l’oggi debba interessare. E questi registi (o scenografi o sceneggiatori) passano per impegnati, per intelligenti innovatori, per interpreti originali. È un’altra manifestazione soggettivista imposta come oggettiva. Mera anarchia e dogmatismo idolatrico.

In questo contesto caotico chi poi dovrebbe fornire, per mestiere, la via dell’universalità e del superamento dell’opinabile soggettivo, diventa un ulteriore fattore di confusione. Si è accentuato quanto già denunciava Sciacca. Da anni siamo alle prese con un Pontificato impegnato socialmente e politicamente, più Barabba che Cristo, che piace alla gente (come già all’epoca scelse Barabba), ma che non provoca conversioni. In effetti, conversione a cosa? A finalità sindacali e politiche? A umanitarismi filantropici di gregarismo e solidarietà animale? E che bisogno c’è di essere cristiani per tutto questo?

Quando leggo «la misericordia non è un privilegio del credente. Ben lo sapeva Cristo allorché narrò la parabola del buon samaritano»[3], trovo, purtroppo, conferma di come per secoli non si sia fatto capire il monito di Gesù: «Da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli” (cfr Gv 13,35)».

È davvero la stessa cosa come asserisce Lombardo-Radice? E come crede lo stesso attuale Pontificato?

Possiamo confondere filantropia e carità? Amore orizzontale (dunque relativo) e amore fondato verticalmente (e dunque assoluto)? Possiamo confondere ciò che, affidato alla linea della storia è destinato a mutare, a ricevere varianti soggettive e a finire con ciò che, come assoluto, ci pre-esiste e di cui siamo umili partecipi e che non finirà mai, perché ben oltre ciascuno di noi? Davvero possiamo confondere lo slancio verso l’altro per mero gregarismo animale con lo slancio di chi, consapevolmente, sa che l’altro è immagine dell’assoluto? Davvero si può pensare che trattare l’altro come membro della stessa specie e quindi da richiedere solidarietà (come fa qualunque animale gregario) sia la medesima cosa che trattare l’altro, anche il nemico, come fratello perché figlio dell’unico Dio?

Per chi non crede amare l’altro essendo basato storicamente, cioè sul relativo, sul transeunte, sull’effimero, sul soggettivo, vale quanto il suo contrario: niente può sorreggerne autorevolmente la superiorità di valore se non l’utilità (criterio pericolosissimo e reversibile nel suo contrario, se in condizioni diverse) o la istintività naturale (che nulla ha dunque di umano, ma che è semplicemente una solidarietà animale di specie). Se l’amore, la misericordia o la tolleranza o qualunque altro tipo di valore che pretende di essere “positivo” si regge sulla relatività storica, soggettiva e opinabile, reversibile e interscambiabile, tutto questo vale esattamente come il suo contrario, il vivere per il proprio tornaconto, per il proprio esclusivo piacere, per se stessi.

Un cristiano non ha questa libertà. Per definirsi tale, essendo per lui l’amore un assoluto, non ha alternative. DEVE amare SE vuol essere un cristiano. Ho usato la parvenza kantiana di un imperativo per dar forza all’affermazione. Ovviamente l’amore non è un dovere, ma per arrivare davvero ad amare, bisogna educarsi ad esso e inizialmente lo è, è un mero dovere. Dunque, «da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli» diventa davvero un’identità unica. Amare il proprio nemico significa giungere a una educazione all’amore che perviene sino alla estrema alterità terrena, il nemico. Oltre, umanamente, non c’è alcuno. Amare il proprio nemico, significa niente altro che esser riusciti ad amare ogni uomo. L’altro da amare non si sceglie, neppure nella coppia. L’innamoramento sceglie per noi e di lì comincia l’educazione a fare dell’altro il nostro fine, la nostra gioia, il senso della vita, la felicità, il piacere, il valore. Solo così l’amore non ha alternative, non “finisce”, perché lo si è ancorato all’assoluto, non al relativo.

Quando si sente dire “l’amore finisce come ogni cosa” è vero se guardiamo nella prospettiva storica. Ma l’amore non esiste perché noi lo pratichiamo, non ha i nostri limiti, le nostre cadute, i nostri fraintendimenti. L’amore ci pre-esiste, è Amore che è a dispetto di ciascuno di noi e del quale noi possiamo soltanto essere partecipi, senza fare come “La volpe e l’uva” della celebre favola di Esopo: se non arrivo a prendere l’uva, dico che l’uva è acerba. No, l’uva è buona, sono io che non riesco ad arrivarci. Se non riesco ad amare e se l’amore per me “finisce”, non significa che l’amore finisca, ma che io non sono stato capace di amare.

È umano? Certamente è umano. Ma non facciamolo passare per norma.

L’amore non è neppure questione di fortuna. Ho sentito più volte dire “ma tu sei stato/a fortunato/a a trovare l’uomo/la donna giusti. Non si tratta di scegliere. Quale sarebbe il criterio? Se è l’io, l’altra persona è accettata e amata quanto più mi rassomiglia o mi è affine o ha “molte cose’ in comune con me”. Cioè sto cercando qualcuno che mi assomigli molto: il modello è Narciso, che si innamora di se stesso.

Se il criterio è il “tu”, allora, quel/la tu di cui mi sono innamorato/a diventa il mio fine e, di conseguenza, non ci può essere rottura, separazione, divorzio o altro, perché è il mio assoluto.

E come “amare il proprio nemico” fungeva da estrema alterità e misura delle proprie capacità di amare, riuscire ad amare, nella relazione di coppia, ciò che ritengo i suoi difetti è la chiave di volta che impedisce ogni finitezza al rapporto di amore. Ogni rottura di rapporto non può che avere come riferimento assoluto l’ego: non mi piace più, non mi appaga, non lo/la amo, ecc. Se il criterio fosse davvero l’altro, quale rottura ci sarebbe?

E in questo quadro di confusione dove si parla di amore ma in realtà conta soltanto l’ego non possiamo che avere conseguenze di una “civiltà” che lascia che l’amore si esplichi “naturalmente”, e che, per tale motivo, non è e non viene educata all’amore. E così: stupri (trattare l’altra come merce da consumo per l’io, come avviene in natura, dove lo stupro non esiste perché il maschio ci prova sempre ed è la femmina che stabilisce i tempi), violenza sulle donne (in un contesto di “valori” animali il maschio fa prevalere in certi casi l’unica sua meschina risorsa animale, naturale, cioè la forza), guerre (la solita rivendicazione del proprio territorio, del proprio “spazio vitale” come fa un qualunque animale); razzismo (guai se un membro di un’altra specie entra nel territorio proprio o fa cose che sono ascritte alle proprie prerogative. Provate a mettere una formica nera fra formiche rosse o viceversa, un nuovo membro di specie in un gruppo consolidato, dove persino un cucciolo viene respinto…); aborti (l’altro non è ancora altro, ma “quasi un niente” di cui posso sbarazzarmi perché ha invaso il mio corpo in modo inatteso, imprevisto, non-voluto, indesiderato, inopportuno, ecc. E’ una mia proprietà e ne faccio quello che voglio);

Possibili risposte al problema

La radice ontologica della libertà, radicata e scaturita nell’interiorità umana dallo squilibrio tra la presenza di domande possibili eccedenti e la povertà delle risposte offerte dalla natura e dalla propria condizione umana (pure capace di quelle domande!) appena si manifesta all’esterno, appena esce alla luce, ha davanti a sé un campo sconfinato di storiche possibilità da poter realizzare, innumerevoli micro e macrostorie, una indefinita sterminata serie di scelte, tante quante ne può produrre, nel finito quantitativo, l’infinito qualitativo della domanda. E ogni cultura, ogni civiltà manifesta una visione del mondo, espone i suoi valori, propone i propri riferimenti terreni ed extraumani. Nessuno potrà contare questo orizzonte che pare senza fine, pur essendo limitato. E ognuno vive lo stordimento e l’ebbrezza di questa libertà, sin dai suoi balbettii generazionali, con la maggiore età sino alle grandi scelte esistenziali. Esse sono rese possibili dal nostro squilibrio. Senza di esso niente libertà, ma mera necessità di essere ciò che è già inscritto in ognuno di noi. La libertà ha fondamento metafisico ed è un raggio della presenza sovrannaturale nell’uomo, visto che essa manifesta precisamente la sua radicale differenza dal mondo della natura, schiacciato nella necessità, perché sul piano dell’immanenza, perfettamente adeguato.

La libertà segna, nello stesso tempo, la nostra precarietà naturale (spesso goffa e dannosa) e la nostra superiorità sovra-(n)-naturale. Ci si è sempre accontentati di parlare di materia e spirito, corpo e anima, mere nomenclature, senza spessore semantico. Siamo cresciuti sullo sfondo di una divisione che è diventata spesso lacerante e per chi l’ha rifiutata, l’alibi per risposte unilaterali, riduttive della bivalenza umana.

La storia, anche la più turpe, è discendenza diretta di un disagio da eliminare, sia che si tratti della microstoria di ciascuno che della macrostoria che decide dei nostri destini. Nel suo affacciarsi nel mondo delle scelte che chiamiamo storia o cultura o civiltà (concetti poi che, sappiamo, hanno acquisito valenze diverse, ma che qui non fanno differenza sostanziale) ogni uomo può riprendere ed amplificare la sua animalità, che lo segna però solo in parte. La fa prevalere in forme più o meno sublimate: conquiste, lotta, territorio, sesso, benessere, gregarismo, pensiero dominante (cioè non-pensiero), sopravvivenza quotidiana, e tutto quello che non va oltre la parallela alla terra. C’è anche chi capendo i limiti di questa risposta e la sua sterile seduzione, comincia a guardare il cielo come risposta, camminando sulla terra a testa in su. Fa dell’uomo un angelo mancato, non un uomo. E ancora una volta va ribadito: la storia, la civiltà, la cultura, non sono l’inizio, ma già conseguenza, risultato, prodotto. Conseguenza, risultato e prodotto dello squilibrio, della ricerca che scaturisce precisamente dal dover cercare risposte appaganti.

Perché l’uomo, se può essere un angelo mancato, è anche un animale mancato. Ciò che definisce l’uomo, è ciò che è assente in lui, non ciò che c’è ed è, perché ciò che c’è ed è, non c’è e non è mai, giacché deve arrivare ad essere: l’uomo fa storia per questo, secondo dopo secondo. Non è compiuto né come lo è un verme, né come lo è un angelo. Sul piano naturale egli è meno di un verme: la natura lo ha lasciato privo di risposte che invece ha riversato in quell’invertebrato. Sul piano angelico il nostro esser generati impone limiti che nessun angelo potrà mai avere, che l’angelo esista o meno.

La corda sospesa di cui parlava Nietzsche e che è l’uomo, deve costruirsi, edificarsi (Bildung), perché di una sola cosa è certo e che segna la sua storia come storia e che fa la sua storia: niente lo appaga, se non momentaneamente, marginalmente. Quante volte ho sentito dire a spiegazione di questa universale constatazione: “perché l’uomo non si accontenta mai!”.

È un tipo di risposta emblematico, perché cela quello che spesso fa una certa parte della scienza: descrive con sinonimi e tutto resta come prima[4]. Se non ci si accontenta vuol dire che, anche se oscuramente, in ciascuno c’è un modello in base al quale giudichiamo insufficiente una risposta e cerchiamo il meglio che poi, a distanza di tempo, sarà inesorabilmente soppiantato da un ulteriore meglio e così via.

È lo squilibrio a generare la storia e lo squilibrio è generato da un’eccedenza presente in ogni uomo e che lo fa uomo nel senso che gli fa comprendere il suo doversi fare, quell’eccedenza che travalica i limiti delle possibili risposte secondo natura e che spinge l’uomo alla ricerca, che lo fa inquieto, senza sede, viandante precario alla ricerca di un approdo definitivo che la storia e la natura non sanno dargli.

Bisogna stare attenti, vigili su ogni particolare. Ognuno di essi ha una consistenza che va oltre la visibilità sperimentata. Si pensi alla domanda. Non a questa o a quella domanda, ma alla domanda in sé, a qualunque titolo venga fatta e per qualunque motivo. La domanda trascende la successione continua degli eventi, emerge dal magma unilaterale del semplicemente vissuto. Si domanda perché si trascende. Non c’è bisogno di mostrare nella domanda contenuti di elevatezza, di profondità, di completezza. È il domandare in sé che va oltre, precisamente in quanto domandare, va oltre ciò che dovrebbe semplicemente essere lì, da vivere, per sé, col massimo profitto. Ma una domanda eleva, oltre-passa, supera e mette sotto riflessione ciò che in se stesso non sarebbe necessario fare oggetto di attenzione. Il “perché” è già una traccia del sovrannaturale che è in noi. Ne è figura accennata, implicita, discreta, ma è espressione di non essere in linea con quanto c’è e si presenta a noi come un’eccedenza, anch’essa nata dallo squilibrio, emersa come un “perché” che, nella realtà, non ha un “perché”. È il nostro spirito a porre il quesito, a sottoporre a punto interrogativo un fatto, un’azione, una parola che sono quel che sono, e che nel loro esserci sono compiuti, semplicemente da vivere e/o da acquisire. E invece emerge la domanda ed essa allude alla consistenza di qualcosa che non si vede, ma che c’è. Come le fondamenta di una casa. Noi siamo attratti dalla casa, dalle sue stanze, da tutto quello che essa manifesta, ma essa può esserci perché c’è una consistenza implicita che emerge: quella casa deve, per esserci, avere delle fondamenta. Noi siamo attratti dai contenuti della domanda e avviamo ogni discorso da quella e pensiamo che alle spalle della domanda non ci sia altro da approfondire, perché è la stessa domanda a rivelare tutta la problematicità che, alle sue spalle, essa, appunto, pone dinanzi a sé e manifesta.

Ma la domanda ha le sue cause, certamente, ma ciò che conta è il suo fondamento. Perché emerge nell’uomo il perché di cose, parole o azioni? Non “a causa di cosa” si fa la domanda, ma, fatta salva l’eventuale spiegazione causale, ciò che è fondamentale è perché emerge, perché scaturisce “normalmente” (=di norma), sin da bambini, quel sorvolare l’oggetto e porlo sotto processo? Cosa alimenta questa attitudine? La curiositas? Ma quanti animali, sappiamo, sono curiosi, ma non interrogano il proprio vivere, né quello di chi lo circonda? E che non lo facciano (sono costretto a questo chiarimento per certe sciocche affermazioni, sul tipo “e noi che ne sappiamo?”) lo manifesta il loro non fare alcuna storia, alcuna cultura. E questo va connesso strettamente al fatto che non hanno libertà e dunque necessità di una funzione alternativa a quella che già hanno (l’istinto) e che definiamo genericamente come “ragione”, “intelligenza”, ecc. L’animale non ha alcuno squilibrio. Quello che è, è quello che deve essere ed esso fa di tutto per conservarsi per quello che è. Non cambia, non muta, non mette in discussione, non crea alternative.

Si è cercato quale fosse l’inizio di ogni religione, conseguenza di una religiosità lasciata spesso all’irrazionale, al sentimento o qualcosa di analogo, ad una spiegazione in ogni caso oscura, che niente spiegava e che con le sue suggestioni ambigue gettava discredito sul problema, facendo perdere credibilità alla stessa questione. Inoltre, con banale superficialità si è pensato che una domanda religiosa, se c’è, dovrebbe avere un contenuto religioso, quando i contenuti li dà soltanto la storia!

Ma nel momento in cui già solo imprimo l’impronta della mia mano sullo sfondo di una caverna, incido scene di caccia o simboli, mi segno il volto o lavoro l’arma con cui caccio secondo l’identità mia o del mio gruppo natìo, ho già urlato al mondo che ho dovuto inventare, creare risposte mediante quelle funzioni, pensiero e libertà, che sono sore proprio per supplire le inadempienze della natura, che mi ha lasciato sguarnito. Il cercare, il domandare, l’interrogare la realtà, il problematizzarla, sono formalmente la domanda religiosa, religiosa in quanto la sua essenza, al di là dei contenuti che poi la storia le assegnerà, è sovrannaturale, sovrastorica, sovraumana. E questa è precisamente la domanda religiosa. Lo è nella forma, come solo può essere in quel momento primigenio in cui emerge ontologicamente: cerca l’oltre natura. Denuncia la pochezza di quello che stando a ciò che si sperimenta dovrebbe essere il suo solo habitat e che invece non è tale. Formalmente sto chiedendo di oltre-passare il piano naturale e la storia, qualunque cosa esprima, anche la più dissacrante e atea, nasce inesorabilmente, che lo si voglia o meno, dalla necessità di dover dare una risposta ad una situazione per niente naturale e che scaturisce proprio dal silenzio impotente della natura. Mentre le risposte possono discostarsi tra loro (le diverse ideologie, religioni, culture, fedi confessionali o aconfessionali, ecc.) lo squilibrio non differisce ed è la sorgente di tutto, la medesima per tutti. Ed una sorgente spacca la terra ed emerge e la invade e va oltre il sito dal quale è scaturita. È’ sulla terra, scorre sulla terra, ma non è terra e senza quell’acqua la terra è sterile, senza senso, priva delle condizioni per esprimere le proprie potenzialità.

Ma se il proprio stare in natura è segnato dalla storia, semplicemente questo non indica che abbiamo ogni volta la necessità di esercitare la libertà alternativa alla necessità naturale che rimpiangiamo in modo melenso, ma che non ci è mai appartenuta come uomini? La parte “naturale” in noi, per la quale e sulla quale certo non possiamo esercitare libertà, spesso è solo un peso da dover vivere, una necessità appunto di sopravvivenza e ce ne siamo difesi edulcorandola e trasformandola, spesso, in valore sociale, politico e talvolta finanche religioso.

Purtroppo quella sorgente è arrivata oggi a un punto dove è fango e terra e pochi hanno la pazienza e accettano la fatica di risalire alla sorgente. Si vive senza fondamento e si fa della vita o di elementi di essa, retorici valori politici, sindacali, sociali, culturali, economici, religiosi, come una grande fiction, un gioco di ruoli, dove ognuno è ben “costruito” perché sia quello che si vuole sia (o debba essere), basta che non rifletta e non chieda del suo significato.

Non c’è da stupirsi della drammatica fine di molti nostri simili, giunti alla fama, al potere o alla ricchezza che denunciano apertamente il vuoto che sono e che hanno, vuoto che li spinge alla morte, volontaria o indiretta. Certe suadenti risposte storiche, pur apparendo complete all’occhio umano che cerca soluzioni terrestri, sono completamente incapaci di risolvere lo stato di inquietudine che lo squilibrio tra finito e infinito che è in ogni uomo, reclama. E malgrado questo, nuovi illusi, credendo che per loro sarà diverso, intraprendono la strada di un successo orizzontale potenzialmente capace, pensano, di rispondere finalmente alla domanda. La loro richiesta scaturiva dalla presenza dell’infinito, ma è stata tradita e delusa con risposte orizzontali. Senza senso.

La domanda non appartiene alla natura: non c’è organismo vivente che interroghi la propria condizione e quello che lo circonda. Non sarebbe né utile, né funzionale alla vita. Vive la sua condizione appagata e la difende e conserva. Per tutti gli organismi la sedia, cui alludevo come esempio, non rivela una presenza mancante. È quello che è. L’uomo, proprio in quanto uomo, domanda perché è altro dalla natura, e vede che la sedia è vuota, mancante di qualcosa, e chiede altro che la natura non sa dargli: per questo, è domanda religiosa, religiosa semplicemente perché dichiara insoddisfazione per tutto ciò che è immanente e perché, di conseguenza, tende all’oltre-altro. E lo fa in modo anche orizzontale (progresso, evoluzione, cambiamento, ambizione e carriera, successo e realizzazione-di-sé), ma senza che sia davvero risolta l’inquietudine, senza che davvero il vuoto sia riempito. Come può l’infinito essere esaurito da una presunta pienezza solo finita? : «non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere» (Ger 17,6).

Non è necessario essere storicamente atei o religiosi per dichiararsi di conseguenza per quello che si è scelto di essere. In entrambi i casi siamo di fronte a due risposte rispetto all’unica domanda che, anch’essa, non è necessariamente religiosa (“credi o non credi?), ma che, ancora prima del porsi in questo modo, è religiosa già in quanto domanda, perché nasce da un dislivello che proviene dalla mancanza di un adeguato con-vivere nella natura, non ricevendo da essa quanto davvero mi è vitale, e non parlo dal punto di vista biologico della sopravvivenza (conseguenza anch’essa e non prima causa della mia necessità di creare strumenti e produrre cultura e storia come risulta ai funzionalisti).

E di più. La mia grande libertà, radicale perché può coinvolgere tutto, la mia libertà di dire no alla trascendenza, a Dio, quella profonda libertà che mi permette di essere ateo, negando ogni dipendenza e dichiarandomi per un altro assoluto (me o un “ismo” a piacere, in ogni caso, idolatrico), mi è concessa solo ed esclusivamente perché non c’è una risposta pre-costituita, non c’è una risposta “naturale”. E proprio nel dire “no”, esattamente come la crocifissione, vado a confermare l’alterità, l’oltre (che nego), perché “non si dichiara guerra a uno stato che non si riconosce”, ammoniva saggiamene Vincenzo Cuoco. Lo riconosco perché lo devo negare e perché lo posso negare: “dovere” e “possibilità” non sono il primum, ma conseguenza di non appartenere a quella dimensione naturale che di Dio non sa nulla. Quel no libero ricompone l’equilibrio attraverso questa risposta che vuole liberarsi della domanda e ripristinare la continuità animale interrotta, anomalmente, dal quesito che si è dovuto affrontare. Si è percepita l’assenza sulla sedia, la si è intercettata come “sedia vuota” e si è risposto che non è vuota di Dio, ma di qualcosa che appartiene soltanto alla dimensione orizzontale. Di qui, anche il sarcasmo supponente di certi atei che non vivono seriamente la propria risposta, con seria responsabilità, ma che con banale critica trovano la domanda senza senso. Non si rendono conto che si è già sul piano delle risposte, laddove l’inevitabilità della presenza dello squilibrio nell’uomo è dato dall’aver chiesto e dovuto rispondere.

Sappiano che la domanda può essere senza senso soltanto in un caso: se si è o si vuol essere animali.


Residuo come immagine dell’”infinito altro”


Si dice degli “ultimi” che rappresentano la prova dell’azione di carità illuminata dalla fede e dalla Verità. Il loro pre-figurare l’Assoluto è anche l’emergere riflessivo per una qualunque valutazione filosofica. Il residuo, l’ultimo, colui che è scartato è, per propria essenza, solutus-ab, fuori da qualunque integrazione nel sistema che definendo, limita e circoscrive e che niente può su quanto gli sfugge, lo eccede o viene esplicitamente escluso perché estraneo all’orizzontalità del sapere umano e del suo possedere.

L’irriducibilità del residuo è la sua profonda alterità, il suo trascendere il sistema, per rivelarsi come Assoluto. Assoluto non in quanto amplificazione del sistema e sua dogmatica unilaterale perentoria affermazione, come avviene in una logica umana troppo umana, scontata e sedotta dal grandioso e spettacolare. Qui l’Assoluto è talora persino invisibile, dimenticato, ma precisamente questo segna la sua differenza rispetto all’omogeneità continua dell’orizzontale dominante.

L’assoluto partorito dal sistema è sempre idolatria, quello che definisce il male secondo Agostino, cioè il particolare che usurpa la qualità assoluta (esattamente come, in origine, nel mito del libro della Genesi, con la tentazione diabolica dell’eritis sicut Dei). Così, di volta in volta, l’uomo, anche in buona fede, non fa che assolutizzare quantitativamente ciò che sperimenta: l’assolutamente grande, l’assolutamente giusto, l’assolutamente buono, l’assolutamente bello, l’assolutamente vero, ecc. Non fa altro che prendere ciò che il sistema teoricamente pone come assoluto, senza poterlo raggiungere in quanto sistema (cioè “definito”, limitato, circoscritto). È un’implicita idolatria. L’assoluto è un’alterità talmente irriducibile al sistema (e non la sua realizzazione amplificata) che sconvolge gli stessi parametri logici del sistema: l’assolutamente grande, dunque, per esempio, non è raffigurabile dall’orizzonte che libera la nostra fantasia in una estensione senza fine o l’universo con distanze inimmaginabili, ma semplicemente dal punto, che è, come insegna la geometria, infinito. Ma, analogamente, l’assolutamente giusto, buono, bello, vero, non possono essere ipotecati dal limite umano che li suppone oltre il limite (ma in senso quantitativo, ignorandone la qualità altra), ma semplicemente pensati precisamente come irriducibili al sistema logico-razionale dell’uomo, cioè del finito. Ancora un esempio: un’auto che toccasse velocità impensabili non sta avvicinandosi all’assoluto possibile, avendo oltre-passato i limiti precedenti di velocità. È invece l’attrito l’autentico assoluto, quello che non potrà mai essere assorbito ed eliminato dal sistema: la sua irriducibilità lo pone, per definizione, al di sopra, qualitativamente parlando, di ogni pretesa definitoria e di ogni possesso del sapere. Al presente e in proiezione futura. È quello scarto che ci rende limitati a prefigurare quell’infinito che pure siamo ma che non siamo completamente.

Il disperso, l’espulso, l’esule, l’itinerante, lo hobo, il fuggiasco, l’evaso, il condannato, sono prefigurazioni, seppur parziali dell’assoluto, molto di più che il filantropo, il democratico, l’integrato. Questi secondi, rinforzano il sistema, assicurano al particolare immanente continuità e valore; i primi aprono all’oltre e rappresentano l’alterità che è l’identità stessa dell’assoluto.

Indefinite risposte libere: la storia

Il pesante materialismo autoreferenziale, seppure implicito e dato per metodo, è avviare ogni discorso dalla storia. Non soltanto. Per storia s’intende quella che si presenta con eventi, persone ed altro che si siano resi visibili e controllabili, cioè con la nascita della scrittura. E da lì, si dice, ha inizio tutto. Problemi e soluzione dei problemi, tutto in un’autoreferenzialità, dove l’inizio è anche la fine, dove tutto spiega il tutto, dove posso comparare, magari dimenticando che lo stesso metodo è partorito da quella storia che si vorrebbe capire e spiegare: la storia che spiega la storia, la storia che si spiega con se stessa, come se la causa degli eventi, quella genealogica, quella storica appunto, diventasse per incanto anche il suo significato, la sua ragion d’essere. Se così si presumesse ecco che la tautologia diventerebbe ancor più insana: quale è il significato degli eventi storici? Gli altri eventi storici che l’hanno determinati. Ed è ovvio un andare a ritroso all’”infinito”, dove ogni causa richiama quella precedente e questa un’altra ancora alle sue spalle e così via. Tutto affidato “storicamente” (avverbio che ha assunto surrettiziamente, via via la sinonimicità con “scientificamente”) al debolissimo, soggettivo (cfr. Hume) legame del nesso “causa-effetto”. Su questo fragilissimo nesso, fatto passare per oggettivo, si muove la cultura dominante, la divulgazione, i pregiudizi, le superstizioni, la scienza, i mass media, l’ateismo e l’indifferentismo.

Perché dogmaticamente affidarsi solo alla materialità visibile? Perché animalmente siamo così debitori del toccare, sentire, vedere, come se il pensare fosse da meno? Perché rinunciamo pregiudizialmente all’unico specifico umano, affidandoci a ciò che farebbe un qualunque verme? Non riconoscere il problema, che segna l’identità di ogni uomo, prima ancora che decida poi storicamente per una fede o per un’altra, significa strisciare sulla terra come vermi, nutrirci solo di essa, avere come orizzonte il piano sul quale ci spostiamo, senza riuscire a cogliere la luce del cielo.

La storia non è l’inizio, ma una conseguenza, una serie di risposte che devono avere, necessariamente, una domanda alle spalle. Non si può partire per spiegare ogni cosa da ciò che viene dato per scontato essere l’inizio e che invece è, di per sé, problema. Perché la storia?

Tanto più lecita e doverosa la domanda se si pensa che niente in natura e nessuno in natura fa o è storia. E a chi ritiene che la storia sia supinamente la conseguenza del fatto che, al solito (il nuovo deus ex machina) l’uomo “ha la ragione”, come se si fosse in questo modo risolto e non invece complicato il problema, andrebbe ricordato che essa non è evoluzione dell’istinto e che è talmente estranea alla natura che oggi dobbiamo correre ai ripari per sanare i danni che abbiamo provocato con la nostra ragione e con la nostra storia.

I conti non tornano: non sappiamo da dove provenga la capacità di fare storia e rinviamo la risposta alla ragione; non sappiamo da dove scaturisca la ragione e rinviamo alla natura, una sorta di grande serbatoio dove va tutto a confluire per far tacere la riflessione. La conclusione è che la natura si è evoluta contro se stessa! Non soltanto complicandoci la vita a differenza di ogni animale (basti pensare al Leopardi, a Pirandello, ecc.), ma evolvendosi in modo tale da permettere al suo animale più evoluto di poterla distruggere. Dunque una natura che si è evoluta verso un innaturale fine, uno scopo autolesionista. E si è tuti soddisfatti di aver trovato le risposte adeguate, sino a quando, per alcune di esse, ci si accorge che vanno a distruggere proprio la natura..

La storia non è l’inizio, ma una serie di risposte, tanto diverse, ampie e molteplici quante ne può “contenere” una infinita domanda. Il concetto di infinito è qualitativo, quello di indefinito è quantitativo. Il primo non ci compete, in quanto enti finiti; il secondo trascrive quantitativamente l’infinito. La storia è la serie di indefinite possibili risposte che l’uomo ha dato, dà e darà ad una domanda infinita che lo segna, ad una domanda che è “assenza di risposta”, che è “squilibrio”, che anomalia naturale. È una domanda che non ha trovato, né troverà risposta nel naturale e nello storico: è una domanda che eccede, che trascende il soggetto che pure, geneticamente, la ha in sé. La storia cerca con tutte le sue strade di ricerca, infime e/o sublimi, di dare soddisfazione, individuale e universale, a quella domanda. Quella domanda ci rende uniti, tutti di egual valore, perché tutti segnati metafisicamente. Le risposte sono molteplici e diverse, inesauribili e varie, perché ciò che le produce è una domanda infinita.

Così, per questo motivo, nella storia compaiono tante possibili risposte. Tralasciamo quelle individuali (dal mero piacere, ai soldi, dalla carriera, alla ricchezza, ecc.). Quelle che, invece, arrivano sui manuali di storia, sono anch’essi tentativi di adeguazione, di risoluzione: l’universalità imposta dalla matematica (che non esiste e che è un atto dello spirito), dalla scienza, dall’arte, dalle leggi dell’economia e della politica, delle Costituzioni e delle leggi, dalle religioni e delle filosofie.

In questa prospettiva, qualcuno dei prodotti storici pretende di analizzare e giudicare altri prodotti storici (una pretesa che si autofonda), come se ci fosse nella storia qualcosa che non subisse la mutevolezza, la precarietà e la mortalità storica. E comparendo le religioni come storia, partendo dogmaticamente dalla pretesa che tutto si spiega nella storia, si esaurisce tutto il significato della religione (ma non soltanto) nelle risposte, che, ovviamente, si relativizzano a vicenda, essendo tutte prodotti storici. Così, prodotti storici come la psicoanalisi, il marxismo, lo storicismo hanno la pretesa di elevarsi in nome di una presunta superiorità (la scienza, ovviamente, anch’essa prodotto storico) al punto da ergersi giudici del fenomeno religioso che, ovviamente, non avendo nulla a che fare con quei metodi e obiettivi e finalità, non può che essere estromessa, criticata, offesa, banalizzata, relativizzata, irrisa. Ma psicanalisi, marxismo, storicismo (e ho citato solo queste tre esemplificazioni) sono a loro volta il tentativo di capire, perché anch’esse hanno interrogato la realtà. Il loro porsi per capire e sapere ha denunciato alla base una condizione che così non poteva restare. In più, proprio dal loro punto di vista storico, la religione c’è da quando c’è l’uomo, psicanalisi, marxismo e storicismo sono eventi di passaggio recente, filiazioni epigonali di tentativi sedimentati per cercare di spiegare cosa sia l’uomo e cosa e perché faccia certe cose. In queste discipline e metodologie, c’è la stessa domanda religiosa alla base, quella che ha giudicato necessario ordinare a proprio modo quanto visto e sperimentato. La libertà che ha permesso loro questa scelta non è naturale, ha base metafisica e ciò che ne scaturisce ne è legittima o illegittima filiazione, secondo che venga riconosciuta o meno come tale. Ma resta una filiazione.

Tuttavia se sono riuscito ad esser chiaro, le religioni sono il giusto spazio e tempo storico più idonei a rispondere alla domanda che, avendo una “natura” sovrannaturale, richiamano esplicitamente il mondo religioso. Ma la domanda è in se stessa religiosa, non per contenuti, che appartengono alla storia, ma come forma: c’è la presenza di una domanda che eccede, trascende ogni risposta finita, limitata, umana o naturale. È dunque una domanda sovra-umana, sovra-storica, sovra-nnaturale.

Tutta la storia si impadronisce, indebitamente perché idolatricamente, di quella domanda infinita, vestendo di infinito il finito e assolutizzando, (ecco l’idolatria) ciò che è solo storico. Ma uno straccione rivestito di panni regali resta uno straccione e spacciarlo per re è una truffa. Ogni “ismo” è una truffa, perché idolatria, assunzione di un valore assoluto, sovrastorico, per farlo coincidere arbitrariamente (perché soggettivamente) con un prodotto storico: dal faraone-dio ai dittatori, dallo scientismo al razzismo, dall’evoluzionismo all’etnocentrismo, dallo storicismo al positivismo, dall’Illuminismo al razionalismo e fideismo, e così via: «così dice il Signore: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore» (Ger 17, 5). Non avere idolatrie, è essere “poveri in spirito”, è la povertà che cristianamente rende beati.

In sintesi, dunque, l’infinità della qualità della domanda rende possibili le indefinite possibilità di risposta (che sono la storia, la cultura, le civiltà). L’infinità della domanda è formalmente una domanda d’impronta religiosa, avendo giudicato ogni immanenza come insufficiente, come inadempiente.

La storia nasce dalla libertà che è, come dire, mancanza di risposte necessarie, cioè di natura.

La fondazione della libertà, cioè dell’uomo, cioè della storia, è metafisica.

Di qui anche le risposte alternative alla visione metafisica, che negando l’assoluto, a vario titolo, lo fanno, inesorabilmente, assolutizzando qualcosa di particolare o il particolare tout court: non si critica un assoluto se non in nome di un altro assoluto. Ogni assolutizzazione dell’immanenza è un’orizzontalizzazione del verticale, un testardo tradimento degli obiettivi: forme idolatriche che non possono fare a meno dell’infinito che segna metà dell’uomo, ma che intendono risolvere nell’altra metà animale: gli arieti contro la verticale. Animalizzare lo specifico che ci rende uomini, significa, appunto, come avviene, omo-logare l’umanità all’animalità e l’animalità all’umanità. Si è scelta la parte finita, la nostra appartenenza ad Adamah, ma la si è potuta scegliere perché esiste l’altra dimensione, quella metafisica, in base alla quale scelgo, liberamente, e mi costruisco nel tempo, liberamente, perché non sono già quello che dovrei essere, un animale compiuto come gli altri.

Sotto questo aspetto, invece, dobbiamo ribadire che l’uomo è “naturalmente storico”, cioè un ossimoro vivente ed è intimamente storico perché è intimamente non appagato dalla natura e “costretto” dalle inadempienze di questa, a produrre proprie possibili risposte di adeguazione e soddisfazione. Se la natura, a lui, animale evoluto, cioè più animale di ogni altro animale, avesse dato risposte adeguate, nessuna storia sarebbe sorta, nessuna civiltà, nessuna necessità della scienza, nessuna arte, nessuna tecnica politica, nessuna religione, nessuna morale (perché nessuna libertà), nessuna filosofia. Avremmo tutti avuto le stesse risposte “imposte” dalla natura al suo figlio prediletto.

Eppure, a ben vedere, c’è chi non ha alcuna storia, alcuna civiltà, nessuna scienza, nessuna arte o tecnica politica, nessuna religione o morale o filosofia. C’è chi non ha alcuna libertà. C’è chi è stato dalla natura prediletto e che ne ha ricevuto tutto quanto gli era necessario.

Questi “fortunati” sono tutti gli organismi viventi, tutti gli animali e tutte le piante.

Ma non l’uomo.


[1] A. Rosmini, Filosofia del diritto, Cedam, Padova 1967-69, IV, 898 [2] Ritengo che la smisurata importanza data oggi alla particolarità, alla personalità, sia uno degli elementi che rappresenta la denuncia di uno stato di frammentazione soggettivista dal punto di vista socio-culturale, e, nel contempo, un educare a dimenticare, sottovalutare o ignorare l’universale. Siccome questo non è alienabile, ecco che ricompare, -a partire dal soggettivismo però-, quella nostalgia all’universalità che ha nell’omologazione la sua pessima decadente sua brutta copia. La confusione tra universalità e generalità ha qui le sue radici. [3] Lucio Lombardo Radice, Figlio dell’uomo, in I. Fetscher, M. Machovec (a cura di), Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1979, p. 26. [4] (“Il più forte sopravvive”; “e chi è il più forte?”; “colui che sopravvive”). (“Perché è morto?”; “per arresto cardiaco”). (spiacente per Luther King: “La mia libertà finisce dove inizia la vostra”; “e dove finisce la nostra?”; “dove inizia la mia” e così all’infinito); (“tutto cade per la legge di gravità”); (“è sopravvissuto perché si è meglio adattato”); (“la natura si spiega con se stessa”); (“la storia spiega la storia e insegna come fare storia in futuro”);


 
 
 

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